Chi paga il castello a Carandini? Noi
12/2/12 .- http://eddyburg.it/article/view/18511/
Altro che sostegno dei privati al patrimonio culturale! L’italico malcostume del “prendi i soldi e fregatene” è diffuso a tutti i livelli. Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2012 (m.p.g.)
L’ultimo numero dell’«Espresso» ha rivelato che il Consiglio Superiore per i Beni culturali ha approvato il versamento di 288.973 euro ai proprietari del Castello di Torre in Pietra, a Fiumicino: e cioè al presidente del medesimo Consiglio, il conte Andrea Carandini, e alle sue sorelle. L’aristocratico archeologo ha risposto – noblesse oblige – che non si cura di queste cose, e che dunque non si era accorto che si discutesse di un’elargizione diretta a lui stesso. Se ne fosse accorto – pensa il lettore ingenuo – forse si sarebbe allontanato per qualche minuto dalla presidenza: anche solo per eleganza (gentilizia, se non istituzionale).
Si potrebbe chiudere qua il discorso – magari augurandosi che, di norma, il presidente sia al corrente di ciò che sta discutendo l’organo che presiede – se non fosse che l’«Espresso» ha trascurato la vera sostanza dell’episodio.
Perché lo Stato, cioè tutti noi, dovrebbe elargire una cifra cospicua a un privato non certo indigente per la conservazione di un suo palazzo? La risposta porta diritto al cuore del nostro modello di tutela, ed è che le opere o gli edifici storici non si considerano in base alla loro proprietà, ma al grado del loro interesse culturale. Se un bene è davvero importante (e Torre in Pietra lo è di sicuro, grazie alle opere architettoniche e figurative che racchiude, tra le quali spiccano gli affreschi di Pier Leone Ghezzi) il proprietario deve risponderne alla collettività. Perché, accanto alla proprietà giuridica, esiste una proprietà, costituzionale e morale, ben più ampia: in questo senso, quel bene appartiene a tutta la nazione italiana, la quale dunque può contribuire economicamente al suo mantenimento. Naturalmente, però, questo diverso modo di possedere deve potersi esercitare, nell’unico modo possibile: quel bene, per quanto privato, dev’essere accessibile a tutti. È per questo che l’articolo 38 del Codice dei Beni Culturali impone l’«accessibilità al pubblico dei beni culturali oggetto di interventi conservativi», prescrivendo che «i beni culturali restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa, o per i quali siano stati concessi contributi in conto interessi, sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da appositi accordi o convenzioni da stipularsi fra il Ministero ed i singoli proprietari», e ancora che «gli accordi e le convenzioni stabiliscono i limiti temporali dell’obbligo di apertura al pubblico».
E qui casca l’asino (absit iniuria verbis) perché Torre in Pietra non è visitabile. Se non siete Mara Carfagna (che ha noleggiato il castello, e ci si è sontuosamente sposata), o Silvio Berlusconi (che le ha fatto da testimone) non avete infatti nessuna possibilità di vedere come sono stati spesi i vostri soldi. Sul curatissimo sito internet ( www.castelloditorreinpietra.it  ) la voce “visita” si risolve in una galleria di belle fotografie, e mentre abbondano le indicazioni per l’affitto, non c’è traccia dell’assoluzione dell’obbligo di accessibilità. Volendo approfondire la faccenda, ho chiamato l’amministrazione per ben tre volte, e in giorni diversi, presentandomi come un privato cittadino, come un insegnante e infine come uno studioso di barocco romano e chiedendo quali fossero le modalità per visitare il castello. La risposta è stata sempre la stessa, cortese ma assai stupita: «Il castello è privato – ha capito? Pri-va-to! – e non è visitabile. Ma se le serve per un matrimonio chiami al …».
Quel che sarebbe grave (perché illegale) per ogni cittadino, diventa gravissimo per il presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali.
In un paese normale, basterebbe molto meno per dimettersi.
Ma in Italia, dove i ministri comprano case senza saperlo, figuriamoci se il professor Andrea Carandini si sente tenuto ad accorgersi di auto-stanziarsi trecentomila euro, o a sapere se casa sua sia aperta o no ai cittadini che gli elargiscono quella somma. E poi, il pensiero unico ortodosso sul patrimonio culturale non prevede oggi la totale abdicazione dell’interesse pubblico nei confronti degli interessi privati? E il conte Carandini all’ortodossia – comunista o ultraliberista, poco importa – ci ha sempre tenuto.
L’ultimo numero dell’«Espresso» ha rivelato che il Consiglio Superiore per i Beni culturali ha approvato il versamento di 288.973 euro ai proprietari del Castello di Torre in Pietra, a Fiumicino: e cioè al presidente del medesimo Consiglio, il conte Andrea Carandini, e alle sue sorelle. L’aristocratico archeologo ha risposto – noblesse oblige – che non si cura di queste cose, e che dunque non si era accorto che si discutesse di un’elargizione diretta a lui stesso. Se ne fosse accorto – pensa il lettore ingenuo – forse si sarebbe allontanato per qualche minuto dalla presidenza: anche solo per eleganza (gentilizia, se non istituzionale).
Si potrebbe chiudere qua il discorso – magari augurandosi che, di norma, il presidente sia al corrente di ciò che sta discutendo l’organo che presiede – se non fosse che l’«Espresso» ha trascurato la vera sostanza dell’episodio.
Perché lo Stato, cioè tutti noi, dovrebbe elargire una cifra cospicua a un privato non certo indigente per la conservazione di un suo palazzo? La risposta porta diritto al cuore del nostro modello di tutela, ed è che le opere o gli edifici storici non si considerano in base alla loro proprietà, ma al grado del loro interesse culturale. Se un bene è davvero importante (e Torre in Pietra lo è di sicuro, grazie alle opere architettoniche e figurative che racchiude, tra le quali spiccano gli affreschi di Pier Leone Ghezzi) il proprietario deve risponderne alla collettività. Perché, accanto alla proprietà giuridica, esiste una proprietà, costituzionale e morale, ben più ampia: in questo senso, quel bene appartiene a tutta la nazione italiana, la quale dunque può contribuire economicamente al suo mantenimento. Naturalmente, però, questo diverso modo di possedere deve potersi esercitare, nell’unico modo possibile: quel bene, per quanto privato, dev’essere accessibile a tutti. È per questo che l’articolo 38 del Codice dei Beni Culturali impone l’«accessibilità al pubblico dei beni culturali oggetto di interventi conservativi», prescrivendo che «i beni culturali restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa, o per i quali siano stati concessi contributi in conto interessi, sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da appositi accordi o convenzioni da stipularsi fra il Ministero ed i singoli proprietari», e ancora che «gli accordi e le convenzioni stabiliscono i limiti temporali dell’obbligo di apertura al pubblico».
E qui casca l’asino (absit iniuria verbis) perché Torre in Pietra non è visitabile. Se non siete Mara Carfagna (che ha noleggiato il castello, e ci si è sontuosamente sposata), o Silvio Berlusconi (che le ha fatto da testimone) non avete infatti nessuna possibilità di vedere come sono stati spesi i vostri soldi. Sul curatissimo sito internet ( www.castelloditorreinpietra.it  ) la voce “visita” si risolve in una galleria di belle fotografie, e mentre abbondano le indicazioni per l’affitto, non c’è traccia dell’assoluzione dell’obbligo di accessibilità. Volendo approfondire la faccenda, ho chiamato l’amministrazione per ben tre volte, e in giorni diversi, presentandomi come un privato cittadino, come un insegnante e infine come uno studioso di barocco romano e chiedendo quali fossero le modalità per visitare il castello. La risposta è stata sempre la stessa, cortese ma assai stupita: «Il castello è privato – ha capito? Pri-va-to! – e non è visitabile. Ma se le serve per un matrimonio chiami al …».
Quel che sarebbe grave (perché illegale) per ogni cittadino, diventa gravissimo per il presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali.
In un paese normale, basterebbe molto meno per dimettersi.
Ma in Italia, dove i ministri comprano case senza saperlo, figuriamoci se il professor Andrea Carandini si sente tenuto ad accorgersi di auto-stanziarsi trecentomila euro, o a sapere se casa sua sia aperta o no ai cittadini che gli elargiscono quella somma. E poi, il pensiero unico ortodosso sul patrimonio culturale non prevede oggi la totale abdicazione dell’interesse pubblico nei confronti degli interessi privati? E il conte Carandini all’ortodossia – comunista o ultraliberista, poco importa – ci ha sempre tenuto.
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