L’archeologia medievale in Italia: un bilancio
Sauro GELICHI. Catedrático Universidad Ca' Foscari de Venecia (Italia).
11/6/05
Un anniversario: il trentennale di ‘Archeologia Medievale’ (Fig. 1)
Nel 1974 si pubblicava in Italia il primo numero della rivista ‘Archeologia Medievale’. Se dovessimo prendere a prestito una data per sancire l’inizio di una disciplina (per quanto sia operazione, come sempre in questi casi, arbitraria e semplificatrice), forse quell’anno si presterebbe meglio di altri. La rivista non nasceva dal nulla, ma era il frutto, maturo, di un pregresso che affondava le sue radici più prossime nelle esperienze di ricerca di storici, geografi ed archeologi della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70 su alcuni tematismi allora molto in voga: la storia della “cultura materiale” e la storia dell’insediamento rurale (nella particolare forma dei villages désertés). Erano quelle stesse esperienze che avevano portato, nel 1971, alla pubblicazione di un ciclostilato dal titolo ‘Notiziario di Archeologia Medievale’ (più semplicemente NAM), che si stampava a Genova, e alla costituzione di alcuni gruppi di ricerca in numerose parti d’Italia.
La rivista ‘Archeologia Medievale’ nasceva anche in un momento particolare di maturazione teorico-metodologica dell’archeologia nazionale. Si stavano reintroducendo infatti in Italia le tecniche dello scavo stratigrafico (CARANDINI 1981) e, contestualmente (essendo le due cose strettamente collegate), si stava superando, non senza scosse, il concetto che identificava l’archeologia con la storia dell’arte antica (su cui vd. anche BIANCHI BANDINELLI 1975). Un processo (o una vera e propria rivoluzione, se vogliamo) che finalmente sganciava l’esperienza archeologica nazionale dall’autarchismo protrattosi ben oltre il Ventennio fascista (MANACORDA 1982) e che solo l’alta lezione di alcuni storici dell’arte antica, tra cui Bianchi Bandinelli, aveva saputo rendere accettabile.
Il gruppo che si formò intorno alla rivista ‘Archeologia Medievale’ seppe dunque cogliere, nei vecchi (ma per noi, nuovi) metodi archeologici, gli strumenti più idonei per affrontare alcuni temi storiografici centrali: la storia delle campagne e delle città, degli insediamenti e delle società e, con una punta forse carica dell’eccessiva ideologia dei tempi, la storia dei molti rispetto a quella dei pochi. Si pensava, cioè, che solo il dato materiale, asetticamente prelevato e correttamente interpretato, potesse costituire il tramite non mediato con la storia di quelle che allora si chiamavano, senza pudore, le ‘classi subalterne’; e questo con una dose di positivismo un po’ fuori tempo che ci faceva considerare la fonte archeologica una fonte ‘oggettiva’ e soprattutto oggettive le nostre capacità di comprenderla.
La rivoluzione archeologica (possiamo ancora chiamarla così?) degli anni ’70 portò ad alcuni cambiamenti radicali immediati (ad esempio una sempre più generalizzata adozione dei metodi stratigrafici nello scavo), ma ha faticato, e fatica, ad introdurre mutamenti profondi nei modi di fare e soprattutto di pensare l’archeologia. Non a caso, ad esempio, e con qualche sparuta eccezione, i nostri archeologi sono ancora poco propensi a confrontarsi con il dibattito metodologico e le ricerche sul campo sono supportate, generalmente, da uno scarso spessore teorico, quando non implicito. Dovremmo aspettare più generazioni perché il risultato si compia, anche se viene da chiedersi dove sarà mai l’archeologia tra due o tre generazioni ancora.
Per quanto ci riguarda, tuttavia, la liberazione dalla storia dell’arte antica aveva significato, come acutamente non aveva mancato di sottolineare Bianchi Bandinelli (1975, p. xxvii), lo sdoganamento di altre archeologie, compresa quella post-classica: superato lo stretto legame con l’antichità, l’archeologia poteva finalmente diventare, anche nel nostro paese, una disciplina multiperiodale, senza barriere né steccati. Questo avrebbe ben presto innescato un altro problema, quello della scansione temporale che l’archeologo avrebbe dovuto scegliere come punto di osservazione: ma al momento, era sufficiente così.
Un po’ di storia
Nel 1997 ho tracciato una breve di storia dell’archeologia medievale in Italia (GELICHI 1997, pp. 17-87); un percorso per verificare se, nelle vicende della nostra archeologia, si potessero rintracciare attività o interessi indirizzati verso l’età post-antica (lasciando ovviamente da parte il problema del rapporto con l’archeologia cristiana, di cui parleremo più avanti). Credo che, con qualche inevitabile integrazione (vd. AUGENTI 2000, sulla figura di Giacomo Boni e IDEM 2001, sulla figura di Ugo Monneret de Villard), la sintesi tracciata in quella sede possa dirsi sufficientemente completa e per certi aspetti esplicativa. A quel testo per quei temi dunque si rimanda. Tuttavia in questa sede si possono richiamare alcune tematiche che più di altre hanno caratterizzato l’archeologia del medioevo nel nostro paese e che potremmo definire come: a) l’archeologia del medioevo nell’età del Positivismo; b) l’archeologia “barbarica”; c) l’archeologia medievale e la storia della ceramica post-antica; d) l’archeologia medievale e le esperienze del secondo dopoguerra.
L’archeologia del medioevo nell’età del Positivismo
Il periodo del Positivismo corrisponde con un momento particolarmente intenso per la nostra archeologia (PERONI 1992). L’incrollabile fede nel dato scientifico (la scienza come sinonimo di progresso e come valore etico) e un interesse sempre più accentuato per i caratteri del locale (insieme portatori di valori universali e di identità nazionale) stanno alla base degli orientamenti di metodo e di azione sul campo di una nutrita cerchia di studiosi operanti in particolare in ambito pre-protostorico nel nord Italia. In questo ambiente e in questa temperie culturale siamo in grado di scorgere alcuni studiosi le cui ricerche sforano i settori cronologici tradizionali per sconfinare nel medioevo (o talvolta anche in epoche più recenti). E’ il caso ad esempio di Luigi Pigorini, tra i primi a discutere uno scavo medievale, quello di Fontanellato di Parma (PIGORINI 1865; 1883a-b) o a dedicare pagine acute all’analisi dei recipienti in pietra ollare; è il caso di Carlo Boni (direttore del Museo Civico di Modena) e dei suoi scavi nella Terramare di Montale (BONI 1882-84) o di Francesco Coppi, ancora modenese, e delle sue ricerche a Gorzano (COPPI 1876) (Fig. 2); oppure ancora di Giuseppe Scarabelli, attivo ad Imola, dove indagherà la stazione preistorica di Monte Castellaccio, pubblicando però anche le evidenze archeologiche post-antiche (SCARABELLI 1887). Tuttavia, tra questi, lo studioso che più di altri ha dedicato attenzione ed interesse al medioevo è Gaetano Chierici, direttore del Museo di Reggio Emilia, al quale si deve non solo un ordinamento museografico nel quale si espongono numerosi oggetti e contesti medievali, ma anche alcuni scavi in siti particolarmente significativi per il medioevo, come Bismantova (CHIERICI 1875) o il castello di Canossa.
Per quanto innovatori in alcuni tratti (ma comunque di qualità diseguale), i lavori di questi studiosi intercettano il medioevo e lo indagano solo come parte di una sequenza, riservando in genere i loro obbiettivi prioritari alla pre-protostoria. Manca loro una forte domanda storiografica (gli storici del medioevo in quegli anni sono ben lontani dai tematismi dell’archeologia), e dunque la loro produzione scientifica finisce per produrre solo elenchi e descrizioni di oggetti. Finita la temperie culturale e abbandonati i metodi dell’approccio stratigrafico (presenti, seppure in forma embrionale), l’archeologia nazionale si stava muovendo in altre direzioni, stroncando di fatto all’origine la possibilità che su questo filone di studi potesse svilupparsi anche un’archeologia dell’età post-antica.
L’archeologia “barbarica”
Negli stessi anni in cui la cultura positivista si qualificava attraverso queste esperienze (e spesso all’interno degli stessi ambienti di ricerca), comincia a svilupparsi anche in Italia un’attenzione verso i resti materiali delle epoche barbariche, per quanto qualche sparuto episodio si fosse riscontrato in precedenza. Questa attenzione nasceva, almeno agli inizi, dal fatto che alcune di queste sepolture recavano oggetti di abbigliamento personale o corredi funebri: manufatti, dunque, spesso preziosi, che da soli attiravano l’attenzione di ricercatori più o meno improvvisati. In qualche caso, tuttavia, come in quello della
tomba c.d. di Gisulfo (il nipote di Alboino, re dei Longobardi), rinvenuta a Cividale nel 1874, tali scoperte vennero utilizzate anche per riannodare relazioni con il passato. Il corredo della tomba, infatti, che non era chiaramente congruente con il periodo in cui Gisulfo fu duca di Forum Iulii, venne fatto convivere con un’iscrizione incisa sul sarcofago che esplicitamente richiamava il nome del famoso nipote di Alboino; si trattava, ovviamente, di un falso, prodotto nello stesso ambiente cividalese (BARBIERA 1998) e che doveva servire a recuperare le nobile origini perdute che, in quel caso, si riconoscevano proprio nell’aureo periodo del ducato.
Successivamente, però, queste ricerche si fecero più strutturate (o meglio pianificate). La fine del secolo è infatti caratterizzata, sotto questo profilo, dalla realizzazione di due scavi di grandi necropoli del periodo longobardo, quella cioè di Castel Trosino, pubblicata dal Mengarelli nel 1902 (MENGARELLI 1902), e quella di Nocera Umbra, la cui edizione vide la luce solo nel 1918 (PASQUI, PARIBENI 1918) (Fig. 3).
Nell’area del sito di Castel Trosino (AP), un insediamento lungo la via Cassia in provincia di Ascoli Piceno, vennero scavate regolarmente 190 tombe della necropoli di Contrada Santo Stefano, mentre a Nocera Umbra (TR) fu indagato un vasto cimitero in loc. Portone, a nord dell’abitato (ubicato questa volta lungo la via Flaminia), per un totale di 168 tombe. Questi due scavi restano fondamentali per l’archeologia altomedievale italiana, sia per la qualità e l’importanza intrinseca delle due necropoli, sia per il modo in cui furono scavate, documentate e pubblicate.
Nella prima metà del XX secolo anche l‘interesse per questo tipo di contesti archeologici declinò rapidamente; si segnalano solo alcuni sporadici rinvenimenti e le piccole necropoli scavate dal Galli all’Arcisa di Chiusi (SI) e in via Riobico a Fiesole (FI) (rispettivamente GALLI 1914, VON HESSEN 1966; e GALLI 1942, VON HESSEN 1971).
L’archeologia nazionale, dunque, si era interessata ai longobardi solo sotto il profilo funerario; e, con l’eccezione di Orsi (1887), quasi mai era andata al di là dell’edizione, più o meno accurata, dei contesti. Contrariamente a quanto era avvenuto (o stava avvenendo) in Francia, e a quanto avverrà in Germania, dove l’archeologia del periodo merovingico si connota di aspetti sempre più accentuatamente nazionalistici, in Italia l’interesse si risolse in un quadro teorico e ideologico debole, se non assente. In queste ricerche (meglio sarebbe dire scoperte), e soprattutto in chi le realizza, mancano i presupposti di una competenza specialistica, ma soprattutto sono assenti le motivazioni per far superare all’indagine sul campo il mero livello documentario. Bisogna dunque rivolgersi a specialisti di altri paesi perché anche l’archeologia del periodo delle migrazioni (e con essa i resti appartenenti all’età longobarda in Italia) registri un salto di qualità, se non altro sul piano della tassonomia, cioè della costruzione di precise serie crono-tipologiche di manufatti. Si deve alla teutonica sistematicità del Fuchs la schedatura dei reperti longobardi conservati nei musei italiani, anche se la guerra gli consentirà di pubblicare solo un volume, quello sulle crocette auree (FUCHS 1938). Forse il progetto originario era quello di costruire serie catalogiche per tipi funzionali; ma la serie, da questo punto di vista, non ebbe seguito (se non nel volume, di molti anni più tardo, che Otto von Hessen dedicherà alla ceramica longobarda: VON HESSEN 1968), anche se i lavori di Fuchs e poi di Werner sancirono, nel secondo dopoguerra, un rinnovato interesse per il periodo longobardo e l’impostazione teorico-metodologica ne marcò per buona parte anche gli orientamenti.
L’archeologia medievale e la storia della ceramica post-antica
Verso la seconda metà del XIX secolo in Italia si sviluppa anche un interesse sempre più marcato nei confronti della storia della ceramica post-antica. Questa attenzione non muove certo da presupposti storico-archeologici, ma è essenzialmente motivata da obbiettivi spesso meramente muncipalistici, ai quali si collega tuttavia un sincero desiderio di fare luce sulla formazione delle prime attività artigianali nel nostro paese. Studiare la produzione ceramistica di un luogo significa anche ridare lustro a quel luogo (forse un tempo famoso) e recuperare una coscienza di un passato talvolta anche illustre, con ricadute non irrilevanti sul presente e sul futuro, quando centri oramai quasi dimenticati riprendono a fabbricare stoviglie di terracotta. Tale recupero tuttavia tiene conto quasi esclusivamente delle ceramiche conservate nelle collezioni (dunque manufatti relativamente recenti e spesso di un certo pregio qualitativo) e, soprattutto, delle fonti scritte. Nel contempo non mancano studiosi, come ad esempio il faentino Argnani, che fa ricorso anche ai reperti da scavo e propongono delle prime, seppur fallaci, ricostruzioni di storia delle tecnologie in età post-antica.
Un salto di qualità si registra agli inizi del XIX secolo con la creazione, ancora a Faenza e grazie alla lungimiranza politica di Gaetano Ballardini, del Museo Internazionale delle Ceramiche, di un bollettino di studi e l’Istituto d’Arte. La costruzione di un vero e proprio “sistema” e le capacità di ricercatore e di organizzatore di Ballardini fecero di Faenza, e del suo Museo, un luogo prescelto negli studi sulla ceramica. I lavori di Ballardini rappresenteranno dei capisaldi a cui tutti i ricercatori successivi guarderanno con ammirazione e soggezione (per esempio BALLARDINI 1933; 1938 e 1964); in poche parole la storia della ceramica post-classica in Italia passava da Faenza, non solo per il fatto che Faenza restava uno dei centri principali tra quanti avevano fabbricato maiolica nel nostro paese, ma anche perché il Museo possedeva la migliore biblioteca specialistica sull’argomento e il suo direttore, in contatto con tutti i più importanti Musei europei, si qualificava come l’interlocutore più autorevole in questo settore.
Per registrare un mutamento nello studi sulla ceramica post-antica bisogna attendere gli anni ‘60 del secolo scorso quando due ricercatori, Tiziano Mannoni e David Whitehouse, cominceranno ad utilizzare, in maniera sistematica, gli strumenti archeologici con l’obbiettivo di costruire le prime sequenze crono-tipologiche dei manufatti ceramici (cosa fino ad allora praticata in maniera episodica). Tiziano Mannoni pubblicherà nel 1975 una monografia dedicata alla ceramica medievale in Liguria (MANNONI 1975) (Fig. 4), che resta un lavoro insuperato per organicità e sistematicità di approccio e per innovazione metodologica; qualche anno prima Whitehouse aveva dato alle stampe un lavoro analogo sulla ceramica laziale (WHITEHOUSE 1967) e tutta una serie di altri articoli che, per quanto meno organicamente concepiti, avranno la funzione di riordinare le conoscenza sulle produzioni dell’Italia centro-meridionale. Da questo momento in poi le ricerche sulla ceramica post-antica saranno sempre di più marcate dal contributo dell’archeologia e molte risorse e tempo verranno spesi, nei decenni successivi, ad una migliore definizione dei prodotti sia sul piano tipologico-formale che su quello squisitamente cronologico e tecnologico.
Per quanto l’archeologia medievale abbia effettivamente contribuito a migliorare le nostre conoscenze su uno dei “fossili guida” principali per la ricerca sul campo, è anche vero che la ricerca, almeno in Italia, sembra essersi fermata, nel migliore dei casi, a livello classificatorio. Viene infatti da chiedersi, una volta migliorate le nostre conoscenze sui prodotti, quale possa essere il contributo che lo studio della ceramica porta alla conoscenza storica del passato. Anche in questo caso il rischio è quello di attribuire ai prodotti (e non a tutti) di epoca post-classica le stesse capacità di descrivere il passato (ad esempio in termini di relazioni economiche) che gli archeologici hanno riconosciuto alle ceramiche della Tarda Antichità. Nel contempo, anche le funzioni di indicatore sociale devono essere ben tarate a seconda della rappresentatività (sempre relativa) che il prodotto ceramico riveste in ogni contesto culturale. In ultima analisi, la ridondante presenza dei “cocci” nelle sequenze di epoca post-antica può essere opportunamente equilibrata da approcci di lettura diversificati, selettivi e funzionali, in prima istanza, ad una verifica delle effettive potenzialità informative nei singoli campi d’indagine. In questo senso stanno dando buoni risultati le indagini sulle rappresentatività nei consumi sul piano sociale, diversificati anche a seconda dei vari contesti, sulla loro funzione come tramite di specifiche identità, anche di genere (si vedano ad esempio le ricerche sui monasteri), e, se si vuole, ancora come marker di contatti economici-commerciali.
L’archeologia medievale e le esperienze del secondo dopoguerra
Mentre in altre parti d’Europa la ripresa della ricerca archeologica nel secondo dopoguerra rappresentò un momento di crescita e di sperimentazione (ad esempio nell’ambito dell’archeologia urbana) e vide maturare e strutturarsi l’archeologia medievale, in Italia, come abbiamo detto, bisognerà aspettare i primi anni ’70 perché su alcuni temi forti della medievistica si organizzi la disciplina. Tuttavia alcune esperienze, anche importanti, non erano mancate. Tra queste vanno senz’altro segnalate le attività di scavo di un gruppo di archeologi polacchi, guidati da Witold Hensel, sull’isola di Torcello nella laguna veneziana (Figg. 5-6) e nel sito di Castelseprio in Lombardia (rispettivamente LECIEJEWICZ-TABACZY_SKA-TABACZY_SKI 1977; DABROWSKA - LECIEJEWICZ-TABACZY_SKA-TABACZY_SKI 1978-79). Tali ricerche erano state promosse ed attivate da Gianpiero Bognetti, uno storico che si era occupato in particolare di storia dei Longobardi e che riconosceva, nell’archeologia, uno strumento innovativo per contribuire alla conoscenza storica. Il fatto che avesse chiamato una equipe polacca s dirigere questi due scavi, la dice lunga sullo stato di salute della nostra archeologia, che evidentemente non riteneva ancora in grado di presentarsi come credibile sul piano delle competenze metodologiche.
L’esperienza di questi scavi, tuttavia, non sarà in grado di far maturare un’archeologia del medioevo nel nostro paese, anche perché tali attività verranno interrotte dalla morte di Bognetti. Inoltre l’ambiente archeologico nazionale era lontano sia dai metodi stratigrafici sia da un concetto di archeologia che non si identificasse, quasi esclusivamente, con la storia dell’arte antica o, al massimo, con la topografia.
In realtà sarà solo con l’arrivo, un po’ in ritardo, di un tema che ha goduto, tra gli anni ’60 e ’70, grande fortuna in Europa, cioè quello dei villaggi abbandonati, che ci si rese conto (e del resto era avvenuta la stessa cosa anche in Francia) di come la ricerca storica non potesse non utilizzare anche il dato materiale nello studio di questo fenomeno. Peraltro, nello stesso periodo, quella salutare “rivoluzione” in campo archeologico di cui abbiamo parlato agli inizi permise di completare il quadro. Il recupero di uno strumento metodologico fondamentale al servizio, finalmente, di una forte domanda storiografica, rappresentarono il volano su cui riuscì finalmente a coagularsi l’archeologia medievale in Italia. Da lì avrebbe preso poi altre vie e il tema stesso dei villages désertés verrà a sua volta abbandonato (eccezion fatta per la versione dell’incastellamento). Ma il passaggio era stato compiuto e tornare indietro non era più possibile. Nel frattempo anche le Istituzioni si resero conto che non era più il tempo per dilazioni. Verso la prima metà degli anni ’70 l’accensione di alcuni insegnamenti specificamente dedicati all’archeologia del medioevo sancì definitivamente l’ingresso di questo specialismo nell’ambito delle discipline archeologiche. Qualche anno più tardi (1979) anche il Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali si rese conto che esisteva un problema legato alla conservazione e valorizzazione del patrimonio archeologico post-antico: e tentò di porvi rimedio bandendo un concorso (il primo) per ispettori medievisti nelle Soprintendenze.
Archeologia, archeologia cristiana, storia dell’architettura e storia dell’arte: una convivenza difficile?
Il posizionamento dell’archeologia medievale in Italia parte da un presupposto che sarà pure discutibile nel merito, ma resta indiscutibile nel processo: la sua sostanziale distanza tematica e di metodo, certo non temporale, con alcune discipline (o se si preferisce settori accademicamente strutturati) quali l’archeologia cristiana e la storia dell’arte medievale.
Nel primo caso il rapporto è stato ed è contraddittorio per almeno due ordini di motivi: la presenza, all’interno di chi pratica l’archeologia medievale, di ricercatori che provengono, come formazione, dall’archeologia cristiana (e che ritengono tale esperienza abbia concorso, e debba concorrere, alla costituzione del suo statuto disciplinare, e non a caso le due discipline sono state accorpate nelle ultime scelte che hanno individuato i nuovi settori scientifico-disciplinari); la sovrapposizione, parzialmente cronologica e parzialmente metodologica, dei due ambiti scientifico-disciplinari, costituendo la tarda antichità un segmento temporale in parte coincidente con il primo alto-medioevo. E’ evidente come non sia possibile farne un problema esclusivamente cronologico, anche se tali specialismi, per tradizione accademica tipica delle discipline storiche, tendono a segmentare l’ambito d’azione in grandi spazi temporali. Peraltro, negli ultimi anni, molti ricercatori che si richiamano esplicitamente a quella tradizione di studi hanno adottato metodologie e soprattutto hanno orientato i loro interessi verso tematismi che sono vicini a quelli praticati, nel tempo, dagli archeologi medievisti. E, nel contempo, molti archeologi medievisti hanno abbandonato alcune rigide posizioni per avvicinarsi ad ambiti di ricerca da tempo oggetto di attenzione dell’archeologia cristiana. In poche parole l’allentamento di posizioni ideologicamente orientate, sia nell’un caso che nell’altro, rendono sempre meno distanti le posizioni, creando una sorta di “area” comune, dove non solo il confronto è possibile, ma anche auspicabile.
Poiché dunque il problema centrale è quello nel metodo, anche il rapporto con la storia dell’arte va, a mio avviso, collocato all’interno dello stesso ambito semantico. Anche in questo caso la perdita di una certa enfasi retorica nell’escludere dal raggio d’azione qualsiasi oggetto (o manufatto) riportasse valori di tipo artistico (che peraltro contiene alla base un presupposto ancora condivisibile, e cioè il superamento di un’archeologia qualitativa per un’archeologia quantitativa), ha avviato molta recente archeologia del medioevo verso un confronto con tematismi un tempo abbastanza trascurati. Tutto questo anche con aspetti innovativi sul piano della diagnostica e con ricadute di tutto rilievo anche sul versante dell’interpretazione, in specie in quegli ambiti tradizionalmente definiti delle “arti minori” (si vedano ad esempio recenti lavori sulla scultura altomedievale o studi sulle vetrate), vere e proprie zone d’ombra poco frequentate dagli storici dell’arte proprio in ragione, appunto, di essere già considerate minori.
Verso la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, alcuni archeologi medievisti hanno cominciato a sperimentare sugli alzati i metodi di lettura stratigrafica che si applicavano ai depositi sepolti, dimostrando come, in questa maniera, i contesti architettonici sopravvissuti si potevano analizzare e comprendere meglio (FRANCOVICH-PARENTI 1988; BROGIOLO 1988). Si è trattato di un passaggio naturale, ma né semplice (perché tali principi dovevano essere adattati) né scontato, soprattutto perché si operava di fatto un’invasione di campo in un settore della ricerca tradizionalmente appannaggio degli architetti. Alcuni di questi si sono irritati, sentendosi defraudati di un metodo, che tuttavia prima non esisteva se non in forma del tutto empirica, ma soprattutto delle opportunità che venivano ad aprirsi per dei nuovi soggetti nell’ambito del restauro architettonico: gli archeologi diventavano dunque interlocutori privilegiati nei momenti del recupero e della valorizzazione dei monumenti storici, fino ad orientarne le scelte.
La nascita di quella che oggi viene chiamata archeologia dell’architettura (segnata anche dalla pubblicazione di una rivista) non ha solo rappresentato l’estensione agli alzati di un metodo già sperimentato sul sepolto, ma ha concorso a rivedere e a riformulare molti modelli interpretativi legati al costruito, dimostrando, qualora ce ne fosse bisogno, che gli strumenti non sono neutri e che la loro applicazione discende essenzialmente dal tipo di percorso conoscitivo che intendiamo intraprendere.
I grandi temi degli ultimi trenta anni
Non è vero che l’archeologia medievale si è mossa a tutto campo, anche se non si può negare il fatto che quasi tutti i tematismi, almeno incidentalmente, sono stati via via toccati nelle ricerche, se non altro in occasione di scavi non preventivati, dove la selezione è lasciata al caso e non alla pianificazione. Alcuni argomenti hanno goduto attenzione e risorse maggiori di altri; e, in genere, è su questi che il dibattito si è incentrato, dimostrando come il contributo della fonte materiale non sia affatto marginale né ridondante. C’è da dire, tuttavia, che l’apporto dell’archeologia è stato comunque richiesto su argomenti che già la storiografia tradizionale aveva fatto propri e, nella maggioranza dei casi, si ha l’impressione che comunque la fonte materiale vada ancora ad interagire con costruzioni interpretative e modelli teorici basati sull’analisi della documentazione scritta.
Castelli, incastellamento e storia delle campagne
Il problema dell’incastellamento è stato sentito, almeno nella fase iniziale (e direi anche correttamente), come espressione del fenomeno dell’insediamento nelle campagne, da una parte, e come un particolare aspetto connesso con la storia dei villages désertées, dall’altra. Le prime ricerche, soprattutto in Liguria e Toscana (Fig. 7), a seguito dei pionieristici lavori di Elio Conti (1965), si sono mosse intorno a queste coordinate. Successivamente, ed in particolare dopo il libro Pierre Toubert (1973) dedicato al fenomeno nel Lazio meridionale e nella Sabina, alcuni archeologi hanno cominciato a mettere a fuoco il problema anche sul piano della documentazione materiale. Il modello toubertiano, infatti, che ha avuto un impatto non marginale sulla medievistica italiana, analizzava direttamente le forme dell’insediamento rurale, senza tuttavia poter utilizzare, in quanto del tutto inesistenti in quel periodo, le fonti materiali. Come per il problema della città alto medievale, dunque, anche le tematiche dell’incastellamento non potevano trovare che terreno fertile nell’archeologia del medioevo, soprattutto in quelle aree (l’Italia centrale) nelle quali il fenomeno era stato ampiamente presente ed aveva peraltro lasciato tracce non irrilevanti e ancora ben visibili sul territorio.
Nel contempo, in particolare nell’Italia settentrionale, si è maggiormente focalizzato l’interesse verso quei castelli che potremmo definire di prima generazione, quelle strutture fortificate (militari o ricetti o villaggi) che andarono a caratterizzare il paesaggio alpino e prealpino dalla fine del IV secolo in poi, quando le mutate condizioni politico-istituzionali provocarono una “militarizzazione” dei confini (BROGIOLO-GELICHI 1996) (Fig. 8). In questo contesto, sono stati indagati numerosi siti fortificati, sia del periodo goto che di quello bizantino-longobardo.
Dunque l’archeologia dei castelli sembra muoversi su binari paralleli a seconda delle aree geografiche: nel nord, dove il fenomeno è stato più precoce, le fasi dell’incastellamento di epoca signorile sono state poco indagate; nell’Italia centrale, dove Toubert aveva costruito il suo modello, è proprio su quel periodo che si è indirizzata l’attenzione degli studiosi.
In Toscana, grazie ad un’eccezionale ed intensa attività di ricerca sul campo, soprattutto incentrata su una serie di castelli tardo-medievali, si sta costruendo un modello che contesta nella sostanza l’esistenza, dopo il VI secolo, di un insediamento sparso o intercalare. A partire da quel periodo le forme del popolamento rurale conoscerebbero essenzialmente processi di agglutinazione insediativa, che porterebbero alla formazione di nuclei abitati accentrati (villaggi), talvolta anche precocemente fortificati (FRANCOVICH-HODGES 2003). I castelli, dunque, forme militarizzate dell’insediamento accentrato, prodotte anche (specie dal X secolo in poi) dall’azione Signorile, non sarebbero che il frutto maturo di un processo di accentramento dell’habitat ben più antico (fortificato o meno che fosse), organizzato gerarchicamente.
Risulta dunque evidente come, almeno nelle aree dove la ricerca è più matura, il problema della formazione dei castelli si sta sempre più correlando con lo studio dell’evoluzione del territorio e dunque delle altre forme di insediamento che lo hanno caratterizzato dall’età tardo-antica in avanti. Solo in questa ottica, dunque, si potranno superare quelle diversità (apparenti?) tra aree (centro e sud; centro e nord) e fra cronologie (castelli tardo-antiche/castelli feudali), che rendono al momento scarsamente comunicabili le ricerche.
Da qualche tempo i tradizionali modelli teorici d’approccio allo studio delle popolazioni “barbariche” in Europa, basati essenzialmente sui caratteri dei corredi funerari e della sepoltura abbigliata, sono stati superati (e questo grazie in particolare alle sollecitazioni provenienti dall’antropologia culturale e dalle tendenze della new archaeology, particolarmente radicate in ambiente anglosassone: GELICHI 2000, pp. 150-153, con bibliografia). Oggi, alcuni automatismi che equiparavano la presenza o l’assenza del corredo con le credenze del defunto o con la sua appartenenza etnica si ritengono inadeguati, anche perché è lo stesso concetto di etnicità che si è arricchito di maggiori valenze che nel passato (GASPARRI 1997, POHL 2000). Non solo, ma l’interesse si è lentamente spostato dal contesto funerario considerato come un’unità autonoma (la tomba, il corredo, la posizione del defunto) verso una pluralità dei segni archeologici che possono rimandare a quelle azioni e a quei gesti (anche se molti dei quali perduti per sempre alla conoscenza) che compongono nel loro insieme il rituale funerario. In questo senso anche il concetto di rappresentatività sociale in trasparenza dei corredi (l’idea cioè che una determinata associazione di manufatti possa indicare una specifica appartenenza sociale) è stato superato. La gestione delle pratiche funebri, e questo non solo presso le popolazioni barbariche, viene dunque considerata un momento decisivo in quanto possibilità di auto-rappresentazione; e i funerali uno dei luoghi di negoziazione sociale. L’enfatizzazione, attraverso il corredo, di una sepoltura, dunque, insieme al credo religioso del defunto o alle sue aspettative nell’al di là, costituisce (o può costituire) un elemento che si pone in stretta relazione con le complesse dinamiche sociali della comunità all’interno della quale quella pratica viene compiuta. L’unico rischio, ma non solo sul piano archeologico, è che approcci di questa natura finiscano con lo stemperare (e dunque cancellare) sempre di più i caratteri o le identità delle varie popolazioni (in questo caso i ‘barbari’ nell’Europa centro-occidentale, gli arabi in Spagna).
Nonostante questo travaglio abbia investito l’archeologia europea oramai da più di un ventennio, poco di questo dibattito sembra essersi trasferito in Italia, dove pure richiami ad approcci di questa natura sono stati proposti più volte (LA ROCCA 1989). Solo di recente si è assistito al tentativo di leggere le sepolture longobarde di un territorio, il Friuli, tentando strade non tradizionali, con risultati decisamente incoraggianti. Qualche tentativo migliore di contestualizzazione di queste necropoli è stato fatto, invece, soprattutto nella direzione di ancorarle alla storia dell’insediamento e del popolamento rurale, senza enfatizzarne le funzioni di indicatore militare. Resta la circostanza che queste specifiche evidenze materiali necessitano di una revisione complessiva che tenga conto di questa pluralità di significati e dunque di approcci. Dunque è necessario che lo studio di questi contesti venga affrontato da ricercatori che sappiano opportunamente orientare l’indagine. Inoltre è anche necessario che la documentazione delle nuove necropoli gote e longobarde di recente scavate, quando non ancora pubblicate, si renda disponibile.
Archeologia e storia della città (Figg. 9-10)
Il tema della città altomedievale (della continuità o meno, cioè, dell’urbanesimo antico o della formazione di nuovi abitati) è stato uno dei grandi argomenti che hanno coinvolto la ricerca europea. Per quanto concerne l’Italia, il dibattito è stato più vivace al centro-nord, anche se, negli ultimi anni, qualche ricercatore ha prodotto ottimi contributi anche per il sud della penisola (mi riferisco, nello specifico, alla bella monografia di Paul Arthur su Napoli: ARTHUR 2002). Riassumere questo dibattito, e queste posizioni, in poche battute non è semplice, anche perché la discussione sull’urbanesimo italico alto-medievale deve confrontarsi con una dimensione europea, da una parte, e mediterranea, dall’altra. In poche parole, aspetto che è stato richiamato di recente ancora da Richard Hodges (HODGES 2000), il confronto è su larga scala e, per molti aspetti, ritorna al cuore delle posizioni di Pirenne (o comunque a queste per molti dei problemi connessi: vd. HODGES 1998 e DELOGU 1998). Esistono dunque alcuni problemi ancora insoluti e qualche nodo metodologico da sciogliere, cui vorrei fare un breve riferimento.
Il primo problema è quello di definire la città alto-medievale. Come è noto, a seconda dell’accezione che attribuiamo a questo termine, si può considerare che il modello urbano possa o meno essere sopravvissuto nell’alto medioevo. In Italia, ad esempio, soprattutto in determinate aree della penisola, gli antichi centri urbani restarono di preferenza i luoghi del potere, cioè residenze ducali e comitali, da una parte, e episcopali dall’altra. Nel caso di centri di nuova fondazione, questa tendenza sembra confermata dal fatto che questi divennero, o cercarono di diventare, sedi episcopali, come se una presenza istituzionale ne garantisse lo statuto. Ma secondo Pirenne questo non sarebbe sufficiente; la riduzione di centri commerciali a semplici capoluoghi amministrativi, con qualche parziale eccezione, non garantirebbe a suo avviso la sopravvivenza del modello urbano nell’alto medioevo europeo (PIRENNE 1971, p. 41).
Un secondo problema, di carattere squisitamente metodologico, è che non bisogna confondere il concetto di archeologia urbana (un’archeologia per la città, una pratica cioè all’interno degli abitati vissuti, ma non necessariamente l’unica archeologia per una storia dell’urbanesimo) con l’archeologia della città (antica, medievale etc.). Il luogo d’azione è spesso (anzi quasi sempre) il medesimo, ma non necessariamente convivono finalità, metodi e strategie.
Un terzo aspetto che vorrei sottolineare è che la città di cui ci si è in genere occupati è quella tardoantica ed alto-medievale ed invece quasi per niente l’attenzione è ricaduta sulla città del tardo-medioevo (per non parlare dei periodi successivi). Questo non significa che fasi tardo o post-meievali delle città non siano state indagate, ma che mancano contributi di sintesi o progetti articolati che riguardino l’urbanesimo di quei periodi.
Un quarto aspetto che a cui vorrei sinteticamente riferirmi è il modo con cui gli archeologi hanno guardato alla storia della città in Italia. Possiamo riconoscere due livelli: si sono occupati prevalentemente di tematismi in parte discendenti dalla topografia storica (forma urbis, confini urbani) o da tematismi strettamente storici (sepolture in città come aspetto di storia della mentalità, edilizia monumentale connessa con l’evergetismo). Alcune componenti, invece, sono più squisitamente legate ai caratteri della fonte materiale, come la crescita dei depositi, la densità dell’abitato, la natura dell’edilizia abitativa e delle infrastrutture.
Un fatto di recente sottolineato, e che non si può non condividere, è che il dibattito dovrebbe spostarsi da questi tematismi per ampliarsi, modificarsi, puntualizzarsi, riposizionarsi, proprio in ragione dell’aumento considerevole di dati a disposizione rispetto agli anni ’80 nei quali la discussione poteva disporre di un numero considerevolmente inferiore di materiale archeologico. Ci sono tuttavia due obbiezioni che si possono muovere a queste posizioni: la prima è che il numero delle attività di scavo in città non è proporzionale al numero di informazioni note, in poche parole gran parte dei dati non sono pubblicati (dunque sono inutilizzabili); la seconda obbiezione è che non è in base al numero (cioè alla quantità) degli interventi che si possono orientare nuovi tematismi, ma sulla base della qualità e della natura delle fonti a disposizione. Sotto questo profilo, ad esempio, ci si chiede in quale forma le fonti materiali potrebbero aiutarci a conoscere meglio i quadri sociali e soprattutto economici urbani nell’alto medioevo; un tema, questo, poco sviluppato finora dagli archeologi nel nostro paese, ma che indubbiamente potrebbe costituire un’area di sviluppo e di ricerca nel prossimo futuro.
Ma un problema di base, che è stato particolarmente sentito proprio in relazione all’archeologia urbana, è come e dove indirizzare la nostra ricerca: cioè qual è il nostro rapporto con l’ archeologia di salvataggio e l’archeologia preventiva. Questo passaggio ci introduce all’ultimo argomento che vorrei trattare: predire per prevenire.
Qualche prospettiva per il futuro. Conoscere per capire: la strategia della tutela e della ricerca e l’archeologia medievale
Come archeologi, oggi noi siamo di fronte al problema di come conservare le nostre fonti, ma anche di quali fonti conservare. In Italia, gli strumenti normativi, confluiti nel nuovo Testo Unico, non modificano affatto il regime di carattere vincolistico, previsto dalla legge 1089 del 1939, che di fatto non comprende né la tutela preventiva, né una gradualità nella tutela. Il carattere eminentemente patrimoniale del concetto di bene archeologico (che non considera invece il suo valore di conoscenza) rende difficile la pianificazione (si può vincolare solo quello che si conosce, e dunque, nel caso di un bene archeologico, è noto che la conoscenza passa attraverso un’operazione il più delle volte distruttiva, cioè lo scavo).
Nelle tradizionali forme di censimento del dato archeologico, cioè le Carte Archeologiche (regionali o provinciali che siano), il medioevo in genere non compare. Questo fatto costituisce un esempio di come ancora l’archeologia medievale sia sentita un corpo estraneo nel nostro paese. Al di là di questo comportamento, certamente censurabile, c’è però da chiedersi quale significato avrebbe, in carte di questo tipo, il censimento del dato materiale medievale e soprattutto quale sia la soglia, non cronologica, ma tipologica da prendere in considerazione. Forse l’imbarazzo dei colleghi a comprendere il medioevo nasce anche dal fatto che, avendo sostanzialmente contezza di che cosa sia il dato archeologico per l’età classica, hanno una qualche difficoltà ad estenderlo ai periodi posteriori: tutto il costruito, ad esempio, e fino a quando, deve o non deve essere considerato un contesto archeologico? Naturalmente la risposta che viene immediata risulterebbe affermativa; ma a questo punto, allora, la dimensione di ciò che si deve censire cresce a dismisura. Tutto ciò non fa che accrescere quel senso di ingestibilità che discende dall’ampliamento del concetto di bene culturale: il problema dei mali dell’abbondanza (RICCI 1996).
Per altri aspetti risulta anche chiaro che le tradizionali carte archeologiche (dei punti nello spazio collegati con database più o meno complessi), di qualsiasi periodo esse siano, rappresentino degli strumenti poco funzionali alla tutela (perché scarsamente flessibili e differenziate solo in base alla tipologia e non alla qualità della risorsa archeologica), ma anche variamente utili per la comprensione dei processi storici legati al popolamento (rurale o urbano, a secondo del tipo di carta), essendo quasi sempre il frutto di ricerche e scoperte casuali e comunque non espressamente pianificate.
I caratteri peraltro piuttosto evanescenti dell’evidenza archeologica altomedievale (almeno per molti territori della penisola italica) le rende particolarmente inutilizzabili, da questo punto di vista, a meno che non vi vogliano interpretare i silenzi (cioè le assenze) come sostanziali vuoti insediativi.
Per quanto concerne le città, da qualche anno si stanno sperimentando, sulla scia di esperienze anglosassoni degli anni ’70, carte di valutazione della risorsa archeologica (versione lessicale ottimistica delle passate carte di rischio archeologico: GELICHI – ALBERTI – LIBRENTI 1999; GELICHI 2002; vd. anche HUDSON 1981) (Figg. 10-11). Ci sembra che, anche per l’età post-antica, siano questi gli strumenti migliori per una pianificazione delle attività di conservazione o di indagine dei depositi urbani. Naturalmente tali strumenti sono efficaci nella misura in cui entrano a far parte, a pieno titolo, di disegni organici e coordinati di tutela.
La sostanza resta quella di perseguire, come da tempo ha giustamente rilevato Carver (2003), strategie di ricerca (e dunque di tutela) mirate: la conservazione e la gradualità dell’intervento possono trovare una loro plausibilità e funzione solo se messe al servizio di una specifica progettualità. Il contesto archeologico, se è un valore socialmente condivisibile, lo è anche nella misura in cui diviene strumento di conoscenza. In questo senso, allora, la fonte archeologica acquista un reale significato; altrimenti resta muta, un semplice oggetto del tutto inservibile.
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Didascalie alle immagini:
Fig. 1. Copertina del 1 numero (1974) della rivista Archeologia Medievale [0011]
Fig. 2. Riproduzione di una tavola dei materiali di epoca medievale provenienti dallo scavo della terramare di Gorzano (da Coppi 1876) [0054]
Fig. 3. Riproduzione di una tomba di Nocera Umbra ( da Pasqui-Paribeni 1918) [0055]
Fig. 4. Ceramica medievale proveniente dalla Liguria in una tavola del volume di Mannoni (1975) [0056]
Fig. 5. Copertina del volume di Torcello [0022]
Fig. 6. Foto aerea di Torcello [0023]
Fig. 7. Foto del castello di Ascianello, in Toscana, uno dei primi scavi di siti incasellati [0019]
Fig. 8. Pianta dell’insediamento all’interno di Monte Barro (da Brogiolo-Gelichi 1988) [0029]
Fig. 9. Brescia. Foto dello scavo urbano di via Alberto Mario [0044]
Fig. 10. Ferrara, foto dello scavo urbano di Corso Porta Reno [0046]
Fig. 11. Pavia, i depositi distrutti (da Hudson 1981) [0030]
Fig. 12. Cesena, pianta delle potenzialità archeologiche del centro storico (da Gelichi – Alberti – Librenti 1999) [0052].
Nel 1974 si pubblicava in Italia il primo numero della rivista ‘Archeologia Medievale’. Se dovessimo prendere a prestito una data per sancire l’inizio di una disciplina (per quanto sia operazione, come sempre in questi casi, arbitraria e semplificatrice), forse quell’anno si presterebbe meglio di altri. La rivista non nasceva dal nulla, ma era il frutto, maturo, di un pregresso che affondava le sue radici più prossime nelle esperienze di ricerca di storici, geografi ed archeologi della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70 su alcuni tematismi allora molto in voga: la storia della “cultura materiale” e la storia dell’insediamento rurale (nella particolare forma dei villages désertés). Erano quelle stesse esperienze che avevano portato, nel 1971, alla pubblicazione di un ciclostilato dal titolo ‘Notiziario di Archeologia Medievale’ (più semplicemente NAM), che si stampava a Genova, e alla costituzione di alcuni gruppi di ricerca in numerose parti d’Italia.
La rivista ‘Archeologia Medievale’ nasceva anche in un momento particolare di maturazione teorico-metodologica dell’archeologia nazionale. Si stavano reintroducendo infatti in Italia le tecniche dello scavo stratigrafico (CARANDINI 1981) e, contestualmente (essendo le due cose strettamente collegate), si stava superando, non senza scosse, il concetto che identificava l’archeologia con la storia dell’arte antica (su cui vd. anche BIANCHI BANDINELLI 1975). Un processo (o una vera e propria rivoluzione, se vogliamo) che finalmente sganciava l’esperienza archeologica nazionale dall’autarchismo protrattosi ben oltre il Ventennio fascista (MANACORDA 1982) e che solo l’alta lezione di alcuni storici dell’arte antica, tra cui Bianchi Bandinelli, aveva saputo rendere accettabile.
Il gruppo che si formò intorno alla rivista ‘Archeologia Medievale’ seppe dunque cogliere, nei vecchi (ma per noi, nuovi) metodi archeologici, gli strumenti più idonei per affrontare alcuni temi storiografici centrali: la storia delle campagne e delle città, degli insediamenti e delle società e, con una punta forse carica dell’eccessiva ideologia dei tempi, la storia dei molti rispetto a quella dei pochi. Si pensava, cioè, che solo il dato materiale, asetticamente prelevato e correttamente interpretato, potesse costituire il tramite non mediato con la storia di quelle che allora si chiamavano, senza pudore, le ‘classi subalterne’; e questo con una dose di positivismo un po’ fuori tempo che ci faceva considerare la fonte archeologica una fonte ‘oggettiva’ e soprattutto oggettive le nostre capacità di comprenderla.
La rivoluzione archeologica (possiamo ancora chiamarla così?) degli anni ’70 portò ad alcuni cambiamenti radicali immediati (ad esempio una sempre più generalizzata adozione dei metodi stratigrafici nello scavo), ma ha faticato, e fatica, ad introdurre mutamenti profondi nei modi di fare e soprattutto di pensare l’archeologia. Non a caso, ad esempio, e con qualche sparuta eccezione, i nostri archeologi sono ancora poco propensi a confrontarsi con il dibattito metodologico e le ricerche sul campo sono supportate, generalmente, da uno scarso spessore teorico, quando non implicito. Dovremmo aspettare più generazioni perché il risultato si compia, anche se viene da chiedersi dove sarà mai l’archeologia tra due o tre generazioni ancora.
Per quanto ci riguarda, tuttavia, la liberazione dalla storia dell’arte antica aveva significato, come acutamente non aveva mancato di sottolineare Bianchi Bandinelli (1975, p. xxvii), lo sdoganamento di altre archeologie, compresa quella post-classica: superato lo stretto legame con l’antichità, l’archeologia poteva finalmente diventare, anche nel nostro paese, una disciplina multiperiodale, senza barriere né steccati. Questo avrebbe ben presto innescato un altro problema, quello della scansione temporale che l’archeologo avrebbe dovuto scegliere come punto di osservazione: ma al momento, era sufficiente così.
Un po’ di storia
Nel 1997 ho tracciato una breve di storia dell’archeologia medievale in Italia (GELICHI 1997, pp. 17-87); un percorso per verificare se, nelle vicende della nostra archeologia, si potessero rintracciare attività o interessi indirizzati verso l’età post-antica (lasciando ovviamente da parte il problema del rapporto con l’archeologia cristiana, di cui parleremo più avanti). Credo che, con qualche inevitabile integrazione (vd. AUGENTI 2000, sulla figura di Giacomo Boni e IDEM 2001, sulla figura di Ugo Monneret de Villard), la sintesi tracciata in quella sede possa dirsi sufficientemente completa e per certi aspetti esplicativa. A quel testo per quei temi dunque si rimanda. Tuttavia in questa sede si possono richiamare alcune tematiche che più di altre hanno caratterizzato l’archeologia del medioevo nel nostro paese e che potremmo definire come: a) l’archeologia del medioevo nell’età del Positivismo; b) l’archeologia “barbarica”; c) l’archeologia medievale e la storia della ceramica post-antica; d) l’archeologia medievale e le esperienze del secondo dopoguerra.
L’archeologia del medioevo nell’età del Positivismo
Il periodo del Positivismo corrisponde con un momento particolarmente intenso per la nostra archeologia (PERONI 1992). L’incrollabile fede nel dato scientifico (la scienza come sinonimo di progresso e come valore etico) e un interesse sempre più accentuato per i caratteri del locale (insieme portatori di valori universali e di identità nazionale) stanno alla base degli orientamenti di metodo e di azione sul campo di una nutrita cerchia di studiosi operanti in particolare in ambito pre-protostorico nel nord Italia. In questo ambiente e in questa temperie culturale siamo in grado di scorgere alcuni studiosi le cui ricerche sforano i settori cronologici tradizionali per sconfinare nel medioevo (o talvolta anche in epoche più recenti). E’ il caso ad esempio di Luigi Pigorini, tra i primi a discutere uno scavo medievale, quello di Fontanellato di Parma (PIGORINI 1865; 1883a-b) o a dedicare pagine acute all’analisi dei recipienti in pietra ollare; è il caso di Carlo Boni (direttore del Museo Civico di Modena) e dei suoi scavi nella Terramare di Montale (BONI 1882-84) o di Francesco Coppi, ancora modenese, e delle sue ricerche a Gorzano (COPPI 1876) (Fig. 2); oppure ancora di Giuseppe Scarabelli, attivo ad Imola, dove indagherà la stazione preistorica di Monte Castellaccio, pubblicando però anche le evidenze archeologiche post-antiche (SCARABELLI 1887). Tuttavia, tra questi, lo studioso che più di altri ha dedicato attenzione ed interesse al medioevo è Gaetano Chierici, direttore del Museo di Reggio Emilia, al quale si deve non solo un ordinamento museografico nel quale si espongono numerosi oggetti e contesti medievali, ma anche alcuni scavi in siti particolarmente significativi per il medioevo, come Bismantova (CHIERICI 1875) o il castello di Canossa.
Per quanto innovatori in alcuni tratti (ma comunque di qualità diseguale), i lavori di questi studiosi intercettano il medioevo e lo indagano solo come parte di una sequenza, riservando in genere i loro obbiettivi prioritari alla pre-protostoria. Manca loro una forte domanda storiografica (gli storici del medioevo in quegli anni sono ben lontani dai tematismi dell’archeologia), e dunque la loro produzione scientifica finisce per produrre solo elenchi e descrizioni di oggetti. Finita la temperie culturale e abbandonati i metodi dell’approccio stratigrafico (presenti, seppure in forma embrionale), l’archeologia nazionale si stava muovendo in altre direzioni, stroncando di fatto all’origine la possibilità che su questo filone di studi potesse svilupparsi anche un’archeologia dell’età post-antica.
L’archeologia “barbarica”
Negli stessi anni in cui la cultura positivista si qualificava attraverso queste esperienze (e spesso all’interno degli stessi ambienti di ricerca), comincia a svilupparsi anche in Italia un’attenzione verso i resti materiali delle epoche barbariche, per quanto qualche sparuto episodio si fosse riscontrato in precedenza. Questa attenzione nasceva, almeno agli inizi, dal fatto che alcune di queste sepolture recavano oggetti di abbigliamento personale o corredi funebri: manufatti, dunque, spesso preziosi, che da soli attiravano l’attenzione di ricercatori più o meno improvvisati. In qualche caso, tuttavia, come in quello della
tomba c.d. di Gisulfo (il nipote di Alboino, re dei Longobardi), rinvenuta a Cividale nel 1874, tali scoperte vennero utilizzate anche per riannodare relazioni con il passato. Il corredo della tomba, infatti, che non era chiaramente congruente con il periodo in cui Gisulfo fu duca di Forum Iulii, venne fatto convivere con un’iscrizione incisa sul sarcofago che esplicitamente richiamava il nome del famoso nipote di Alboino; si trattava, ovviamente, di un falso, prodotto nello stesso ambiente cividalese (BARBIERA 1998) e che doveva servire a recuperare le nobile origini perdute che, in quel caso, si riconoscevano proprio nell’aureo periodo del ducato.
Successivamente, però, queste ricerche si fecero più strutturate (o meglio pianificate). La fine del secolo è infatti caratterizzata, sotto questo profilo, dalla realizzazione di due scavi di grandi necropoli del periodo longobardo, quella cioè di Castel Trosino, pubblicata dal Mengarelli nel 1902 (MENGARELLI 1902), e quella di Nocera Umbra, la cui edizione vide la luce solo nel 1918 (PASQUI, PARIBENI 1918) (Fig. 3).
Nell’area del sito di Castel Trosino (AP), un insediamento lungo la via Cassia in provincia di Ascoli Piceno, vennero scavate regolarmente 190 tombe della necropoli di Contrada Santo Stefano, mentre a Nocera Umbra (TR) fu indagato un vasto cimitero in loc. Portone, a nord dell’abitato (ubicato questa volta lungo la via Flaminia), per un totale di 168 tombe. Questi due scavi restano fondamentali per l’archeologia altomedievale italiana, sia per la qualità e l’importanza intrinseca delle due necropoli, sia per il modo in cui furono scavate, documentate e pubblicate.
Nella prima metà del XX secolo anche l‘interesse per questo tipo di contesti archeologici declinò rapidamente; si segnalano solo alcuni sporadici rinvenimenti e le piccole necropoli scavate dal Galli all’Arcisa di Chiusi (SI) e in via Riobico a Fiesole (FI) (rispettivamente GALLI 1914, VON HESSEN 1966; e GALLI 1942, VON HESSEN 1971).
L’archeologia nazionale, dunque, si era interessata ai longobardi solo sotto il profilo funerario; e, con l’eccezione di Orsi (1887), quasi mai era andata al di là dell’edizione, più o meno accurata, dei contesti. Contrariamente a quanto era avvenuto (o stava avvenendo) in Francia, e a quanto avverrà in Germania, dove l’archeologia del periodo merovingico si connota di aspetti sempre più accentuatamente nazionalistici, in Italia l’interesse si risolse in un quadro teorico e ideologico debole, se non assente. In queste ricerche (meglio sarebbe dire scoperte), e soprattutto in chi le realizza, mancano i presupposti di una competenza specialistica, ma soprattutto sono assenti le motivazioni per far superare all’indagine sul campo il mero livello documentario. Bisogna dunque rivolgersi a specialisti di altri paesi perché anche l’archeologia del periodo delle migrazioni (e con essa i resti appartenenti all’età longobarda in Italia) registri un salto di qualità, se non altro sul piano della tassonomia, cioè della costruzione di precise serie crono-tipologiche di manufatti. Si deve alla teutonica sistematicità del Fuchs la schedatura dei reperti longobardi conservati nei musei italiani, anche se la guerra gli consentirà di pubblicare solo un volume, quello sulle crocette auree (FUCHS 1938). Forse il progetto originario era quello di costruire serie catalogiche per tipi funzionali; ma la serie, da questo punto di vista, non ebbe seguito (se non nel volume, di molti anni più tardo, che Otto von Hessen dedicherà alla ceramica longobarda: VON HESSEN 1968), anche se i lavori di Fuchs e poi di Werner sancirono, nel secondo dopoguerra, un rinnovato interesse per il periodo longobardo e l’impostazione teorico-metodologica ne marcò per buona parte anche gli orientamenti.
L’archeologia medievale e la storia della ceramica post-antica
Verso la seconda metà del XIX secolo in Italia si sviluppa anche un interesse sempre più marcato nei confronti della storia della ceramica post-antica. Questa attenzione non muove certo da presupposti storico-archeologici, ma è essenzialmente motivata da obbiettivi spesso meramente muncipalistici, ai quali si collega tuttavia un sincero desiderio di fare luce sulla formazione delle prime attività artigianali nel nostro paese. Studiare la produzione ceramistica di un luogo significa anche ridare lustro a quel luogo (forse un tempo famoso) e recuperare una coscienza di un passato talvolta anche illustre, con ricadute non irrilevanti sul presente e sul futuro, quando centri oramai quasi dimenticati riprendono a fabbricare stoviglie di terracotta. Tale recupero tuttavia tiene conto quasi esclusivamente delle ceramiche conservate nelle collezioni (dunque manufatti relativamente recenti e spesso di un certo pregio qualitativo) e, soprattutto, delle fonti scritte. Nel contempo non mancano studiosi, come ad esempio il faentino Argnani, che fa ricorso anche ai reperti da scavo e propongono delle prime, seppur fallaci, ricostruzioni di storia delle tecnologie in età post-antica.
Un salto di qualità si registra agli inizi del XIX secolo con la creazione, ancora a Faenza e grazie alla lungimiranza politica di Gaetano Ballardini, del Museo Internazionale delle Ceramiche, di un bollettino di studi e l’Istituto d’Arte. La costruzione di un vero e proprio “sistema” e le capacità di ricercatore e di organizzatore di Ballardini fecero di Faenza, e del suo Museo, un luogo prescelto negli studi sulla ceramica. I lavori di Ballardini rappresenteranno dei capisaldi a cui tutti i ricercatori successivi guarderanno con ammirazione e soggezione (per esempio BALLARDINI 1933; 1938 e 1964); in poche parole la storia della ceramica post-classica in Italia passava da Faenza, non solo per il fatto che Faenza restava uno dei centri principali tra quanti avevano fabbricato maiolica nel nostro paese, ma anche perché il Museo possedeva la migliore biblioteca specialistica sull’argomento e il suo direttore, in contatto con tutti i più importanti Musei europei, si qualificava come l’interlocutore più autorevole in questo settore.
Per registrare un mutamento nello studi sulla ceramica post-antica bisogna attendere gli anni ‘60 del secolo scorso quando due ricercatori, Tiziano Mannoni e David Whitehouse, cominceranno ad utilizzare, in maniera sistematica, gli strumenti archeologici con l’obbiettivo di costruire le prime sequenze crono-tipologiche dei manufatti ceramici (cosa fino ad allora praticata in maniera episodica). Tiziano Mannoni pubblicherà nel 1975 una monografia dedicata alla ceramica medievale in Liguria (MANNONI 1975) (Fig. 4), che resta un lavoro insuperato per organicità e sistematicità di approccio e per innovazione metodologica; qualche anno prima Whitehouse aveva dato alle stampe un lavoro analogo sulla ceramica laziale (WHITEHOUSE 1967) e tutta una serie di altri articoli che, per quanto meno organicamente concepiti, avranno la funzione di riordinare le conoscenza sulle produzioni dell’Italia centro-meridionale. Da questo momento in poi le ricerche sulla ceramica post-antica saranno sempre di più marcate dal contributo dell’archeologia e molte risorse e tempo verranno spesi, nei decenni successivi, ad una migliore definizione dei prodotti sia sul piano tipologico-formale che su quello squisitamente cronologico e tecnologico.
Per quanto l’archeologia medievale abbia effettivamente contribuito a migliorare le nostre conoscenze su uno dei “fossili guida” principali per la ricerca sul campo, è anche vero che la ricerca, almeno in Italia, sembra essersi fermata, nel migliore dei casi, a livello classificatorio. Viene infatti da chiedersi, una volta migliorate le nostre conoscenze sui prodotti, quale possa essere il contributo che lo studio della ceramica porta alla conoscenza storica del passato. Anche in questo caso il rischio è quello di attribuire ai prodotti (e non a tutti) di epoca post-classica le stesse capacità di descrivere il passato (ad esempio in termini di relazioni economiche) che gli archeologici hanno riconosciuto alle ceramiche della Tarda Antichità. Nel contempo, anche le funzioni di indicatore sociale devono essere ben tarate a seconda della rappresentatività (sempre relativa) che il prodotto ceramico riveste in ogni contesto culturale. In ultima analisi, la ridondante presenza dei “cocci” nelle sequenze di epoca post-antica può essere opportunamente equilibrata da approcci di lettura diversificati, selettivi e funzionali, in prima istanza, ad una verifica delle effettive potenzialità informative nei singoli campi d’indagine. In questo senso stanno dando buoni risultati le indagini sulle rappresentatività nei consumi sul piano sociale, diversificati anche a seconda dei vari contesti, sulla loro funzione come tramite di specifiche identità, anche di genere (si vedano ad esempio le ricerche sui monasteri), e, se si vuole, ancora come marker di contatti economici-commerciali.
L’archeologia medievale e le esperienze del secondo dopoguerra
Mentre in altre parti d’Europa la ripresa della ricerca archeologica nel secondo dopoguerra rappresentò un momento di crescita e di sperimentazione (ad esempio nell’ambito dell’archeologia urbana) e vide maturare e strutturarsi l’archeologia medievale, in Italia, come abbiamo detto, bisognerà aspettare i primi anni ’70 perché su alcuni temi forti della medievistica si organizzi la disciplina. Tuttavia alcune esperienze, anche importanti, non erano mancate. Tra queste vanno senz’altro segnalate le attività di scavo di un gruppo di archeologi polacchi, guidati da Witold Hensel, sull’isola di Torcello nella laguna veneziana (Figg. 5-6) e nel sito di Castelseprio in Lombardia (rispettivamente LECIEJEWICZ-TABACZY_SKA-TABACZY_SKI 1977; DABROWSKA - LECIEJEWICZ-TABACZY_SKA-TABACZY_SKI 1978-79). Tali ricerche erano state promosse ed attivate da Gianpiero Bognetti, uno storico che si era occupato in particolare di storia dei Longobardi e che riconosceva, nell’archeologia, uno strumento innovativo per contribuire alla conoscenza storica. Il fatto che avesse chiamato una equipe polacca s dirigere questi due scavi, la dice lunga sullo stato di salute della nostra archeologia, che evidentemente non riteneva ancora in grado di presentarsi come credibile sul piano delle competenze metodologiche.
L’esperienza di questi scavi, tuttavia, non sarà in grado di far maturare un’archeologia del medioevo nel nostro paese, anche perché tali attività verranno interrotte dalla morte di Bognetti. Inoltre l’ambiente archeologico nazionale era lontano sia dai metodi stratigrafici sia da un concetto di archeologia che non si identificasse, quasi esclusivamente, con la storia dell’arte antica o, al massimo, con la topografia.
In realtà sarà solo con l’arrivo, un po’ in ritardo, di un tema che ha goduto, tra gli anni ’60 e ’70, grande fortuna in Europa, cioè quello dei villaggi abbandonati, che ci si rese conto (e del resto era avvenuta la stessa cosa anche in Francia) di come la ricerca storica non potesse non utilizzare anche il dato materiale nello studio di questo fenomeno. Peraltro, nello stesso periodo, quella salutare “rivoluzione” in campo archeologico di cui abbiamo parlato agli inizi permise di completare il quadro. Il recupero di uno strumento metodologico fondamentale al servizio, finalmente, di una forte domanda storiografica, rappresentarono il volano su cui riuscì finalmente a coagularsi l’archeologia medievale in Italia. Da lì avrebbe preso poi altre vie e il tema stesso dei villages désertés verrà a sua volta abbandonato (eccezion fatta per la versione dell’incastellamento). Ma il passaggio era stato compiuto e tornare indietro non era più possibile. Nel frattempo anche le Istituzioni si resero conto che non era più il tempo per dilazioni. Verso la prima metà degli anni ’70 l’accensione di alcuni insegnamenti specificamente dedicati all’archeologia del medioevo sancì definitivamente l’ingresso di questo specialismo nell’ambito delle discipline archeologiche. Qualche anno più tardi (1979) anche il Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali si rese conto che esisteva un problema legato alla conservazione e valorizzazione del patrimonio archeologico post-antico: e tentò di porvi rimedio bandendo un concorso (il primo) per ispettori medievisti nelle Soprintendenze.
Archeologia, archeologia cristiana, storia dell’architettura e storia dell’arte: una convivenza difficile?
Il posizionamento dell’archeologia medievale in Italia parte da un presupposto che sarà pure discutibile nel merito, ma resta indiscutibile nel processo: la sua sostanziale distanza tematica e di metodo, certo non temporale, con alcune discipline (o se si preferisce settori accademicamente strutturati) quali l’archeologia cristiana e la storia dell’arte medievale.
Nel primo caso il rapporto è stato ed è contraddittorio per almeno due ordini di motivi: la presenza, all’interno di chi pratica l’archeologia medievale, di ricercatori che provengono, come formazione, dall’archeologia cristiana (e che ritengono tale esperienza abbia concorso, e debba concorrere, alla costituzione del suo statuto disciplinare, e non a caso le due discipline sono state accorpate nelle ultime scelte che hanno individuato i nuovi settori scientifico-disciplinari); la sovrapposizione, parzialmente cronologica e parzialmente metodologica, dei due ambiti scientifico-disciplinari, costituendo la tarda antichità un segmento temporale in parte coincidente con il primo alto-medioevo. E’ evidente come non sia possibile farne un problema esclusivamente cronologico, anche se tali specialismi, per tradizione accademica tipica delle discipline storiche, tendono a segmentare l’ambito d’azione in grandi spazi temporali. Peraltro, negli ultimi anni, molti ricercatori che si richiamano esplicitamente a quella tradizione di studi hanno adottato metodologie e soprattutto hanno orientato i loro interessi verso tematismi che sono vicini a quelli praticati, nel tempo, dagli archeologi medievisti. E, nel contempo, molti archeologi medievisti hanno abbandonato alcune rigide posizioni per avvicinarsi ad ambiti di ricerca da tempo oggetto di attenzione dell’archeologia cristiana. In poche parole l’allentamento di posizioni ideologicamente orientate, sia nell’un caso che nell’altro, rendono sempre meno distanti le posizioni, creando una sorta di “area” comune, dove non solo il confronto è possibile, ma anche auspicabile.
Poiché dunque il problema centrale è quello nel metodo, anche il rapporto con la storia dell’arte va, a mio avviso, collocato all’interno dello stesso ambito semantico. Anche in questo caso la perdita di una certa enfasi retorica nell’escludere dal raggio d’azione qualsiasi oggetto (o manufatto) riportasse valori di tipo artistico (che peraltro contiene alla base un presupposto ancora condivisibile, e cioè il superamento di un’archeologia qualitativa per un’archeologia quantitativa), ha avviato molta recente archeologia del medioevo verso un confronto con tematismi un tempo abbastanza trascurati. Tutto questo anche con aspetti innovativi sul piano della diagnostica e con ricadute di tutto rilievo anche sul versante dell’interpretazione, in specie in quegli ambiti tradizionalmente definiti delle “arti minori” (si vedano ad esempio recenti lavori sulla scultura altomedievale o studi sulle vetrate), vere e proprie zone d’ombra poco frequentate dagli storici dell’arte proprio in ragione, appunto, di essere già considerate minori.
Verso la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, alcuni archeologi medievisti hanno cominciato a sperimentare sugli alzati i metodi di lettura stratigrafica che si applicavano ai depositi sepolti, dimostrando come, in questa maniera, i contesti architettonici sopravvissuti si potevano analizzare e comprendere meglio (FRANCOVICH-PARENTI 1988; BROGIOLO 1988). Si è trattato di un passaggio naturale, ma né semplice (perché tali principi dovevano essere adattati) né scontato, soprattutto perché si operava di fatto un’invasione di campo in un settore della ricerca tradizionalmente appannaggio degli architetti. Alcuni di questi si sono irritati, sentendosi defraudati di un metodo, che tuttavia prima non esisteva se non in forma del tutto empirica, ma soprattutto delle opportunità che venivano ad aprirsi per dei nuovi soggetti nell’ambito del restauro architettonico: gli archeologi diventavano dunque interlocutori privilegiati nei momenti del recupero e della valorizzazione dei monumenti storici, fino ad orientarne le scelte.
La nascita di quella che oggi viene chiamata archeologia dell’architettura (segnata anche dalla pubblicazione di una rivista) non ha solo rappresentato l’estensione agli alzati di un metodo già sperimentato sul sepolto, ma ha concorso a rivedere e a riformulare molti modelli interpretativi legati al costruito, dimostrando, qualora ce ne fosse bisogno, che gli strumenti non sono neutri e che la loro applicazione discende essenzialmente dal tipo di percorso conoscitivo che intendiamo intraprendere.
I grandi temi degli ultimi trenta anni
Non è vero che l’archeologia medievale si è mossa a tutto campo, anche se non si può negare il fatto che quasi tutti i tematismi, almeno incidentalmente, sono stati via via toccati nelle ricerche, se non altro in occasione di scavi non preventivati, dove la selezione è lasciata al caso e non alla pianificazione. Alcuni argomenti hanno goduto attenzione e risorse maggiori di altri; e, in genere, è su questi che il dibattito si è incentrato, dimostrando come il contributo della fonte materiale non sia affatto marginale né ridondante. C’è da dire, tuttavia, che l’apporto dell’archeologia è stato comunque richiesto su argomenti che già la storiografia tradizionale aveva fatto propri e, nella maggioranza dei casi, si ha l’impressione che comunque la fonte materiale vada ancora ad interagire con costruzioni interpretative e modelli teorici basati sull’analisi della documentazione scritta.
Castelli, incastellamento e storia delle campagne
Il problema dell’incastellamento è stato sentito, almeno nella fase iniziale (e direi anche correttamente), come espressione del fenomeno dell’insediamento nelle campagne, da una parte, e come un particolare aspetto connesso con la storia dei villages désertées, dall’altra. Le prime ricerche, soprattutto in Liguria e Toscana (Fig. 7), a seguito dei pionieristici lavori di Elio Conti (1965), si sono mosse intorno a queste coordinate. Successivamente, ed in particolare dopo il libro Pierre Toubert (1973) dedicato al fenomeno nel Lazio meridionale e nella Sabina, alcuni archeologi hanno cominciato a mettere a fuoco il problema anche sul piano della documentazione materiale. Il modello toubertiano, infatti, che ha avuto un impatto non marginale sulla medievistica italiana, analizzava direttamente le forme dell’insediamento rurale, senza tuttavia poter utilizzare, in quanto del tutto inesistenti in quel periodo, le fonti materiali. Come per il problema della città alto medievale, dunque, anche le tematiche dell’incastellamento non potevano trovare che terreno fertile nell’archeologia del medioevo, soprattutto in quelle aree (l’Italia centrale) nelle quali il fenomeno era stato ampiamente presente ed aveva peraltro lasciato tracce non irrilevanti e ancora ben visibili sul territorio.
Nel contempo, in particolare nell’Italia settentrionale, si è maggiormente focalizzato l’interesse verso quei castelli che potremmo definire di prima generazione, quelle strutture fortificate (militari o ricetti o villaggi) che andarono a caratterizzare il paesaggio alpino e prealpino dalla fine del IV secolo in poi, quando le mutate condizioni politico-istituzionali provocarono una “militarizzazione” dei confini (BROGIOLO-GELICHI 1996) (Fig. 8). In questo contesto, sono stati indagati numerosi siti fortificati, sia del periodo goto che di quello bizantino-longobardo.
Dunque l’archeologia dei castelli sembra muoversi su binari paralleli a seconda delle aree geografiche: nel nord, dove il fenomeno è stato più precoce, le fasi dell’incastellamento di epoca signorile sono state poco indagate; nell’Italia centrale, dove Toubert aveva costruito il suo modello, è proprio su quel periodo che si è indirizzata l’attenzione degli studiosi.
In Toscana, grazie ad un’eccezionale ed intensa attività di ricerca sul campo, soprattutto incentrata su una serie di castelli tardo-medievali, si sta costruendo un modello che contesta nella sostanza l’esistenza, dopo il VI secolo, di un insediamento sparso o intercalare. A partire da quel periodo le forme del popolamento rurale conoscerebbero essenzialmente processi di agglutinazione insediativa, che porterebbero alla formazione di nuclei abitati accentrati (villaggi), talvolta anche precocemente fortificati (FRANCOVICH-HODGES 2003). I castelli, dunque, forme militarizzate dell’insediamento accentrato, prodotte anche (specie dal X secolo in poi) dall’azione Signorile, non sarebbero che il frutto maturo di un processo di accentramento dell’habitat ben più antico (fortificato o meno che fosse), organizzato gerarchicamente.
Risulta dunque evidente come, almeno nelle aree dove la ricerca è più matura, il problema della formazione dei castelli si sta sempre più correlando con lo studio dell’evoluzione del territorio e dunque delle altre forme di insediamento che lo hanno caratterizzato dall’età tardo-antica in avanti. Solo in questa ottica, dunque, si potranno superare quelle diversità (apparenti?) tra aree (centro e sud; centro e nord) e fra cronologie (castelli tardo-antiche/castelli feudali), che rendono al momento scarsamente comunicabili le ricerche.
Da qualche tempo i tradizionali modelli teorici d’approccio allo studio delle popolazioni “barbariche” in Europa, basati essenzialmente sui caratteri dei corredi funerari e della sepoltura abbigliata, sono stati superati (e questo grazie in particolare alle sollecitazioni provenienti dall’antropologia culturale e dalle tendenze della new archaeology, particolarmente radicate in ambiente anglosassone: GELICHI 2000, pp. 150-153, con bibliografia). Oggi, alcuni automatismi che equiparavano la presenza o l’assenza del corredo con le credenze del defunto o con la sua appartenenza etnica si ritengono inadeguati, anche perché è lo stesso concetto di etnicità che si è arricchito di maggiori valenze che nel passato (GASPARRI 1997, POHL 2000). Non solo, ma l’interesse si è lentamente spostato dal contesto funerario considerato come un’unità autonoma (la tomba, il corredo, la posizione del defunto) verso una pluralità dei segni archeologici che possono rimandare a quelle azioni e a quei gesti (anche se molti dei quali perduti per sempre alla conoscenza) che compongono nel loro insieme il rituale funerario. In questo senso anche il concetto di rappresentatività sociale in trasparenza dei corredi (l’idea cioè che una determinata associazione di manufatti possa indicare una specifica appartenenza sociale) è stato superato. La gestione delle pratiche funebri, e questo non solo presso le popolazioni barbariche, viene dunque considerata un momento decisivo in quanto possibilità di auto-rappresentazione; e i funerali uno dei luoghi di negoziazione sociale. L’enfatizzazione, attraverso il corredo, di una sepoltura, dunque, insieme al credo religioso del defunto o alle sue aspettative nell’al di là, costituisce (o può costituire) un elemento che si pone in stretta relazione con le complesse dinamiche sociali della comunità all’interno della quale quella pratica viene compiuta. L’unico rischio, ma non solo sul piano archeologico, è che approcci di questa natura finiscano con lo stemperare (e dunque cancellare) sempre di più i caratteri o le identità delle varie popolazioni (in questo caso i ‘barbari’ nell’Europa centro-occidentale, gli arabi in Spagna).
Nonostante questo travaglio abbia investito l’archeologia europea oramai da più di un ventennio, poco di questo dibattito sembra essersi trasferito in Italia, dove pure richiami ad approcci di questa natura sono stati proposti più volte (LA ROCCA 1989). Solo di recente si è assistito al tentativo di leggere le sepolture longobarde di un territorio, il Friuli, tentando strade non tradizionali, con risultati decisamente incoraggianti. Qualche tentativo migliore di contestualizzazione di queste necropoli è stato fatto, invece, soprattutto nella direzione di ancorarle alla storia dell’insediamento e del popolamento rurale, senza enfatizzarne le funzioni di indicatore militare. Resta la circostanza che queste specifiche evidenze materiali necessitano di una revisione complessiva che tenga conto di questa pluralità di significati e dunque di approcci. Dunque è necessario che lo studio di questi contesti venga affrontato da ricercatori che sappiano opportunamente orientare l’indagine. Inoltre è anche necessario che la documentazione delle nuove necropoli gote e longobarde di recente scavate, quando non ancora pubblicate, si renda disponibile.
Archeologia e storia della città (Figg. 9-10)
Il tema della città altomedievale (della continuità o meno, cioè, dell’urbanesimo antico o della formazione di nuovi abitati) è stato uno dei grandi argomenti che hanno coinvolto la ricerca europea. Per quanto concerne l’Italia, il dibattito è stato più vivace al centro-nord, anche se, negli ultimi anni, qualche ricercatore ha prodotto ottimi contributi anche per il sud della penisola (mi riferisco, nello specifico, alla bella monografia di Paul Arthur su Napoli: ARTHUR 2002). Riassumere questo dibattito, e queste posizioni, in poche battute non è semplice, anche perché la discussione sull’urbanesimo italico alto-medievale deve confrontarsi con una dimensione europea, da una parte, e mediterranea, dall’altra. In poche parole, aspetto che è stato richiamato di recente ancora da Richard Hodges (HODGES 2000), il confronto è su larga scala e, per molti aspetti, ritorna al cuore delle posizioni di Pirenne (o comunque a queste per molti dei problemi connessi: vd. HODGES 1998 e DELOGU 1998). Esistono dunque alcuni problemi ancora insoluti e qualche nodo metodologico da sciogliere, cui vorrei fare un breve riferimento.
Il primo problema è quello di definire la città alto-medievale. Come è noto, a seconda dell’accezione che attribuiamo a questo termine, si può considerare che il modello urbano possa o meno essere sopravvissuto nell’alto medioevo. In Italia, ad esempio, soprattutto in determinate aree della penisola, gli antichi centri urbani restarono di preferenza i luoghi del potere, cioè residenze ducali e comitali, da una parte, e episcopali dall’altra. Nel caso di centri di nuova fondazione, questa tendenza sembra confermata dal fatto che questi divennero, o cercarono di diventare, sedi episcopali, come se una presenza istituzionale ne garantisse lo statuto. Ma secondo Pirenne questo non sarebbe sufficiente; la riduzione di centri commerciali a semplici capoluoghi amministrativi, con qualche parziale eccezione, non garantirebbe a suo avviso la sopravvivenza del modello urbano nell’alto medioevo europeo (PIRENNE 1971, p. 41).
Un secondo problema, di carattere squisitamente metodologico, è che non bisogna confondere il concetto di archeologia urbana (un’archeologia per la città, una pratica cioè all’interno degli abitati vissuti, ma non necessariamente l’unica archeologia per una storia dell’urbanesimo) con l’archeologia della città (antica, medievale etc.). Il luogo d’azione è spesso (anzi quasi sempre) il medesimo, ma non necessariamente convivono finalità, metodi e strategie.
Un terzo aspetto che vorrei sottolineare è che la città di cui ci si è in genere occupati è quella tardoantica ed alto-medievale ed invece quasi per niente l’attenzione è ricaduta sulla città del tardo-medioevo (per non parlare dei periodi successivi). Questo non significa che fasi tardo o post-meievali delle città non siano state indagate, ma che mancano contributi di sintesi o progetti articolati che riguardino l’urbanesimo di quei periodi.
Un quarto aspetto che a cui vorrei sinteticamente riferirmi è il modo con cui gli archeologi hanno guardato alla storia della città in Italia. Possiamo riconoscere due livelli: si sono occupati prevalentemente di tematismi in parte discendenti dalla topografia storica (forma urbis, confini urbani) o da tematismi strettamente storici (sepolture in città come aspetto di storia della mentalità, edilizia monumentale connessa con l’evergetismo). Alcune componenti, invece, sono più squisitamente legate ai caratteri della fonte materiale, come la crescita dei depositi, la densità dell’abitato, la natura dell’edilizia abitativa e delle infrastrutture.
Un fatto di recente sottolineato, e che non si può non condividere, è che il dibattito dovrebbe spostarsi da questi tematismi per ampliarsi, modificarsi, puntualizzarsi, riposizionarsi, proprio in ragione dell’aumento considerevole di dati a disposizione rispetto agli anni ’80 nei quali la discussione poteva disporre di un numero considerevolmente inferiore di materiale archeologico. Ci sono tuttavia due obbiezioni che si possono muovere a queste posizioni: la prima è che il numero delle attività di scavo in città non è proporzionale al numero di informazioni note, in poche parole gran parte dei dati non sono pubblicati (dunque sono inutilizzabili); la seconda obbiezione è che non è in base al numero (cioè alla quantità) degli interventi che si possono orientare nuovi tematismi, ma sulla base della qualità e della natura delle fonti a disposizione. Sotto questo profilo, ad esempio, ci si chiede in quale forma le fonti materiali potrebbero aiutarci a conoscere meglio i quadri sociali e soprattutto economici urbani nell’alto medioevo; un tema, questo, poco sviluppato finora dagli archeologi nel nostro paese, ma che indubbiamente potrebbe costituire un’area di sviluppo e di ricerca nel prossimo futuro.
Ma un problema di base, che è stato particolarmente sentito proprio in relazione all’archeologia urbana, è come e dove indirizzare la nostra ricerca: cioè qual è il nostro rapporto con l’ archeologia di salvataggio e l’archeologia preventiva. Questo passaggio ci introduce all’ultimo argomento che vorrei trattare: predire per prevenire.
Qualche prospettiva per il futuro. Conoscere per capire: la strategia della tutela e della ricerca e l’archeologia medievale
Come archeologi, oggi noi siamo di fronte al problema di come conservare le nostre fonti, ma anche di quali fonti conservare. In Italia, gli strumenti normativi, confluiti nel nuovo Testo Unico, non modificano affatto il regime di carattere vincolistico, previsto dalla legge 1089 del 1939, che di fatto non comprende né la tutela preventiva, né una gradualità nella tutela. Il carattere eminentemente patrimoniale del concetto di bene archeologico (che non considera invece il suo valore di conoscenza) rende difficile la pianificazione (si può vincolare solo quello che si conosce, e dunque, nel caso di un bene archeologico, è noto che la conoscenza passa attraverso un’operazione il più delle volte distruttiva, cioè lo scavo).
Nelle tradizionali forme di censimento del dato archeologico, cioè le Carte Archeologiche (regionali o provinciali che siano), il medioevo in genere non compare. Questo fatto costituisce un esempio di come ancora l’archeologia medievale sia sentita un corpo estraneo nel nostro paese. Al di là di questo comportamento, certamente censurabile, c’è però da chiedersi quale significato avrebbe, in carte di questo tipo, il censimento del dato materiale medievale e soprattutto quale sia la soglia, non cronologica, ma tipologica da prendere in considerazione. Forse l’imbarazzo dei colleghi a comprendere il medioevo nasce anche dal fatto che, avendo sostanzialmente contezza di che cosa sia il dato archeologico per l’età classica, hanno una qualche difficoltà ad estenderlo ai periodi posteriori: tutto il costruito, ad esempio, e fino a quando, deve o non deve essere considerato un contesto archeologico? Naturalmente la risposta che viene immediata risulterebbe affermativa; ma a questo punto, allora, la dimensione di ciò che si deve censire cresce a dismisura. Tutto ciò non fa che accrescere quel senso di ingestibilità che discende dall’ampliamento del concetto di bene culturale: il problema dei mali dell’abbondanza (RICCI 1996).
Per altri aspetti risulta anche chiaro che le tradizionali carte archeologiche (dei punti nello spazio collegati con database più o meno complessi), di qualsiasi periodo esse siano, rappresentino degli strumenti poco funzionali alla tutela (perché scarsamente flessibili e differenziate solo in base alla tipologia e non alla qualità della risorsa archeologica), ma anche variamente utili per la comprensione dei processi storici legati al popolamento (rurale o urbano, a secondo del tipo di carta), essendo quasi sempre il frutto di ricerche e scoperte casuali e comunque non espressamente pianificate.
I caratteri peraltro piuttosto evanescenti dell’evidenza archeologica altomedievale (almeno per molti territori della penisola italica) le rende particolarmente inutilizzabili, da questo punto di vista, a meno che non vi vogliano interpretare i silenzi (cioè le assenze) come sostanziali vuoti insediativi.
Per quanto concerne le città, da qualche anno si stanno sperimentando, sulla scia di esperienze anglosassoni degli anni ’70, carte di valutazione della risorsa archeologica (versione lessicale ottimistica delle passate carte di rischio archeologico: GELICHI – ALBERTI – LIBRENTI 1999; GELICHI 2002; vd. anche HUDSON 1981) (Figg. 10-11). Ci sembra che, anche per l’età post-antica, siano questi gli strumenti migliori per una pianificazione delle attività di conservazione o di indagine dei depositi urbani. Naturalmente tali strumenti sono efficaci nella misura in cui entrano a far parte, a pieno titolo, di disegni organici e coordinati di tutela.
La sostanza resta quella di perseguire, come da tempo ha giustamente rilevato Carver (2003), strategie di ricerca (e dunque di tutela) mirate: la conservazione e la gradualità dell’intervento possono trovare una loro plausibilità e funzione solo se messe al servizio di una specifica progettualità. Il contesto archeologico, se è un valore socialmente condivisibile, lo è anche nella misura in cui diviene strumento di conoscenza. In questo senso, allora, la fonte archeologica acquista un reale significato; altrimenti resta muta, un semplice oggetto del tutto inservibile.
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Didascalie alle immagini:
Fig. 1. Copertina del 1 numero (1974) della rivista Archeologia Medievale [0011]
Fig. 2. Riproduzione di una tavola dei materiali di epoca medievale provenienti dallo scavo della terramare di Gorzano (da Coppi 1876) [0054]
Fig. 3. Riproduzione di una tomba di Nocera Umbra ( da Pasqui-Paribeni 1918) [0055]
Fig. 4. Ceramica medievale proveniente dalla Liguria in una tavola del volume di Mannoni (1975) [0056]
Fig. 5. Copertina del volume di Torcello [0022]
Fig. 6. Foto aerea di Torcello [0023]
Fig. 7. Foto del castello di Ascianello, in Toscana, uno dei primi scavi di siti incasellati [0019]
Fig. 8. Pianta dell’insediamento all’interno di Monte Barro (da Brogiolo-Gelichi 1988) [0029]
Fig. 9. Brescia. Foto dello scavo urbano di via Alberto Mario [0044]
Fig. 10. Ferrara, foto dello scavo urbano di Corso Porta Reno [0046]
Fig. 11. Pavia, i depositi distrutti (da Hudson 1981) [0030]
Fig. 12. Cesena, pianta delle potenzialità archeologiche del centro storico (da Gelichi – Alberti – Librenti 1999) [0052].
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